
La voce storta
E’ una giornata come tante, di corsa tra un appuntamento e l’altro e solo ora mi rendo conto che sono quasi le 14:00. Ho dimenticato di mangiare!
Informo i colleghi, esco un attimo a prendere un panino. Di fronte all’ospedale dove lavoro c’è un bar che prepara dei manicaretti niente male. Passo dalla sala d’attesa ancora piena di persone che fanno la fila all’accettazione. Lo vedo da lontano, Giacomo, 26 anni, un ragazzo meraviglioso. E’ seduto in mezzo agli altri, in quel modo che hanno alcuni ragazzi come lui, silenziosi, che vogliono occupare il minor spazio possibile nel mondo: gambe raccolte, spalle strette, lo sguardo concentrato tra le mattonelle del pavimento.
Mi avvicino a salutarlo mentre i numeri continuano ad accendersi sul tabellone. BIIIP. La voce metallica annuncia uno sportello disponibile. C’è brusio. Arrivo a due passi da lui, solleva lo sguardo e mi guarda stupito, come quando non ci si aspetta un incontro in un determinato luogo; poi, inaspettatamente emette un suono, una parola sparata nel vuoto come una fucilata, improvvisa, inattesa:
CIAO
Smetto di respirare per un secondo. La sua voce è strana, forse perché non la conosco, sembra un vecchio registratore che si inceppa. Un po’ tremolante, un po’ ruvida, come se non fosse abituata all’aria.
Non l’avevo mai sentita. Dopo mesi di silenzio. Di sguardi. Di piccoli gesti. Di complicità.
Lui mi ha guardata con gli occhi spaventati da ciò che aveva appena fatto. E io ho risposto nel modo più stupido e spontaneo che potessi immaginare:
Ho detto “ciao” anch’io, imitando un po’ il suo tono. Usando anch’io un tono alto, un po’ storto, un po’ goffo. Volevo alleggerire e invece mi sento ridicola, spaventata. Ma come cavolo mi viene in mente di imitarlo? Sono una cretina!
Invece lui mi guarda… e ride. Ridiamo insieme, di liberazione.
Ed è in quel momento che la signora allo sportello dell’accettazione ci fulmina con lo sguardo e urla:
“Ma potete stare zitti? CE LA FATE A STARE ZITTI??? Non è un asilo qua!”
Una frase scagliata come una porta che sbatte.
Un rimprovero senza domanda, senza tentativo di capire.
Mi volto verso la signora, un tuffo nel passato dove mi sento anch’io una bambina ripresa dalla sua mamma. Come si sentirà Giacomo? Lo guardo ma il suo sguardo è di nuovo basso, sulla mattonella.
Avrei potuto spiegare. Dire che quel ragazzo ha il mutismo selettivo. Che quella parola era il suo primo miracolo. Che stavamo ridendo di complicità per essere riusciti a riconoscerci in un “ciao”. Invece non ho detto niente. Perché, a volte, proteggere significa anche non giustificare ciò che non ha bisogno di scuse.
Così siamo rimasti lì un attimo, spaesati. Il biip del cartellone procede, avanti il prossimo. Saluto e vado via con il cuore in subbuglio. Bastava così poco. Bastava uno sguardo attento, una domanda gentile, una voce che invece di urlarci contro provasse a capire.
Bastava dire:
“Scusate, potete continuare fuori? Facciamo fatica a sentire se tutti parlate con un tono alto.”
O qualunque altra cosa che ci riportasse alla realtà di un luogo pubblico, ma in un modo meno violento, più accogliente.
Tutto sarebbe stato diverso.
Ma il mondo, a volte, non è pronto. Non è pronto ad accogliere chi si muove in modo diverso, chi si prende il tempo; chi si discosta anche solo di un passo, viene richiamato.
La frustrazione personale, quella che ognuno si porta dentro e non sa dove mettere, finisce per esplodere proprio dove dovrebbe esserci PIU’ COMPRENSIONE.
Ma qualcosa può cambiare. Dipende anche e soprattutto da noi.
Può cambiare se iniziamo a vedere, a fermarci ad ascoltare prima di giudicare, a scegliere le parole con cura, anche se “siamo a uno sportello” da tante ore, anche se siamo stanchi o se anche noi abbiamo il nostro carico di fatica da trasportare.
Può cambiare se qualcuno inizia ad ascoltare una voce nuova (o anche un urlo strozzato, o un gracchiare differente), come un DONO, senza zittirla ma chiedendosi un perché.
Per un attimo, quelle nostre risate sguaiate e imbarazzate hanno comunque aperto una piccola fessura nel mondo. Sta a noi trasformare la fessura in una voragine di risate condivise, per ricordare che si può essere umani sempre, che si può essere gentili anche nella fatica e per ricordare che una voce storta, se viene accolta, può fiorire.